Parlando il 28 settembre all’assemblea generale delle Nazioni Unite, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin ha riaffermato per l’ennesima volta che “l’unica soluzione praticabile” per assicurare la pace tra Israele e i palestinesi “è quella dei due Stati, con Gerusalemme a statuto speciale”.
In realtà occorre tornare indietro di tre decenni, agli accordi di Oslo del 1993 e poi a quelli falliti di Camp David del 2000, per cogliere l’unico arco di tempo nel quale la soluzione dei due Stati sia apparsa realizzabile. Perché in seguito lo è stata sempre di meno, e oggi resta in vita soltanto nelle parole dei governi che continuano a evocarla, come in un vuoto rituale.
Anche per la Santa Sede è così. Nelle dichiarazioni ufficiali nulla è mutato, da quando nel 1947 essa approvò la ripartizione decisa dall’ONU della Terra Santa in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo-palestinese, con uno statuto speciale per Gerusalemme.
Intanto però, ai vertici della Chiesa cattolica è sotto esame da tempo una diversa soluzione, una sorta di piano B. È anch’essa oggi di ardua praticabilità ma in prospettiva è ritenuta l’unica che sia davvero risolutiva: non due ma un unico Stato, con diritti uguali per tutti, ebrei, arabi, musulmani, cristiani.
È la soluzione indicata pubblicamente per la prima volta dai vescovi cattolici di Terra Santa – tra i quali il patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa – in una dichiarazione del 20 maggio 2019:
“Tutti i discorsi sulla soluzione dei due Stati sono vuota retorica nella situazione attuale. Nel passato abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non potremmo viverci insieme anche in futuro? Condizione fondamentale per una pace giusta e duratura è che tutti in questa Terra Santa abbiano piena eguaglianza. Questa è la nostra visione per Gerusalemme e per tutto il territorio chiamato Israele e Palestina, che è posto tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo”.
Ed è la soluzione più volte argomentata su “La Civiltà Cattolica” – la rivista dei gesuiti di Roma pubblicata ogni volta con il previo controllo delle autorità vaticane – da uno specialista della materia dal profilo molto singolare: David M. Neuhaus, di famiglia ebrea tedesca emigrata in Sudafrica negli anni Trenta, nato a Johannesburg nel 1962, mandato in Israele da adolescente a studiare e lì affascinato dall’incontro con monache venute dalla Russia, battezzato a 25 anni nella Chiesa cattolica e poi entrato nella Compagnia di Gesù, prima negli Stati Uniti e poi in Egitto, ma sempre rimasto ebreo e israeliano, anzi, dal 2009 al 2017 vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica in Israele, nonché professore al Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme.
Sono almeno sei, l’ultimo dei quali recentissimo, gli articoli con i quali Neuhaus ha caldeggiato per la Terra Santa non due Stati separati, me un solo Stato per tutti.
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Il primo articolo ha la data del 19 settembre 2020 e il titolo: “Popolo di Israele, terra di Israele, Stato di Israele”.
In esso Neuhaus registra la protesta degli ebrei per “la persistente riluttanza della Chiesa a riconoscere esplicitamente il significato teologico della pretesa ebraica sulla terra e sullo Stato di Israele”, una pretesa fondata sulla promessa della terra fatta a loro da Dio nella Bibbia.
Egli dà credito a che gli ebrei considerino lo Stato d’Israele parte integrante della loro identità. Nello stesso tempo, però, la fede in Cristo ha universalizzato la tradizione biblica della terra promessa e donata, ne ha ampliato oltre ogni limite i confini. E queste due visioni devono comprendersi e integrarsi a vicenda, a maggior ragione per guarire “le molteplici forme di discriminazione, emarginazione ed esclusione che continuano a sperimentare i ‘non ebrei’ nello Stato ebraico”.
Anche questi, infatti, “devono avere voce, non soltanto nell’arena politica, ma anche nel dibattito teologico sulla terra e sullo Stato di Israele”.
Questo perché, “qualunque quadro si stabilisca per una soluzione del conflitto israelo-palestinese – sia che si tratti di due Stati che vivono fianco a fianco, sia di un unico Stato per tutti –, il principio ultimo per una soluzione duratura è l’uguaglianza della persona umana nei diritti e nei doveri”.
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Il secondo articolo è del 19 novembre 2022 e va ancor più direttamente al cuore della questione, esplicitata già nel titolo: “Ripensare la ripartizione della Palestina?”.
Anzitutto Neuhaus fa notare che furono gli arabi a rifiutare da subito la ripartizione in due Stati approvata dall’ONU nel 1947. Fu guerra e a vincere fu Israele, che si aggiudicò i tre quarti del territorio, dal quale furono spinti a fuggire 700 mila palestinesi, i cui ancor più numerosi discendenti sono tuttora confinati nei campi profughi di Cisgiordania, Gaza, Libano, Siria, Giordania.
A quell’esodo forzato fu dato il nome arabo di Nakba: una “catastrofe” a cui solo una patria sicura potrebbe porre rimedio, così come per gli ebrei lo Stato d’Israele è stato l’approdo sicuro dopo la Shoah.
Ma “oggi la soluzione dei due Stati è ancora attuale?”, si chiede Neuhaus. E la sua risposta è no. Perché “se si osserva la realtà sul campo dopo decenni di invasione israeliana delle terre ulteriormente occupate nella guerra del 1967, con l’incessante costruzione di insediamenti ebraici, di strade israeliane e di altre infrastrutture, la soluzione dei due Stati oggi sembra poco realistica”.
La conseguenza che Neuhaus deriva da questo stato di cose è che in campo politico e diplomatico “l’attenzione si stia lentamente spostando verso un mutato vocabolario”, la cui parola chiave è “uguaglianza”.
Insomma, “poiché l’eventualità della ripartizione – in una realtà in cui Israele ha quasi annesso gran parte dei territori occupati durante la guerra del 1967 – sembra ogni giorno più dubbia, questo potrebbe essere il momento giusto per rafforzare la coscienza della necessità di una lotta per l’uguaglianza di israeliani e palestinesi, in qualunque quadro politico possa evolversi la situazione”.
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Il terzo articolo è del 6 maggio 2023, ha per titolo “Gli ebrei di cultura araba” e tratteggia un affascinante profilo storico del “tempo in cui un ebreo poteva essere anche un arabo”, come parte integrante della società, in numerosi paesi musulmani che si estendevano dal Marocco all’Iraq e poi ancora in Iran, Turchia e Asia Centrale, prima della loro cacciata in seguito alla nascita dello Stato d’Israele.
Oggi, in Israele – fa notare Neuhaus –, la guida delle formazioni politiche è quasi tutta in mano a ebrei originari dell’Europa orientale e centrale, i cosiddetti “ashkenaziti”. Ma va riconosciuto che anche quelli originari del mondo musulmano, i “mizrahim” detti anche “sefarditi”, sono una componente importante della società. E hanno un approccio più aperto al mondo arabo.
All’inizio dell’articolo, Neuhaus cita un episodio rivelatore di poche settimane prima. la devastazione ad opera di coloni ebrei della città di Huwara, vicino a Nablus nella Palestina occupata da Israele, come vendetta per l’uccisione di due israeliani. Nella coalizione di governo, scrive, erano in maggior numero quelli che giustificavano quell’azione crudele. Ma tra coloro che la condannavano severamente c’erano soprattutto i membri del partito ultraortodosso ebraico Shas, espressione diretta dei “mizrahim”, decisamente di destra, ma “i cui membri hanno talvolta sorpreso gli osservatori politici per la moderazione e l’apertura al dialogo con gli arabi in generale e con i palestinesi in particolare”.
Questo per evidenziare che, come c’è stato un tempo in cui tanti ebrei erano “parte integrante del mondo arabo”, anche oggi c’è in Israele chi “offre la prospettiva di un futuro in cui gli ebrei potrebbero vivere accanto agli arabi in una pace giusta e in un’uguaglianza riconciliata”.
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Il quarto articolo è anche il primo dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023 ad opera di Hamas, ha la data del 2 marzio di quest’anno e ha per titolo: “Israele, dove vai?”.
Neuhaus anzitutto tratteggia la crisi in cui Israele è precipitato, la “peggiore crisi dalla sua fondazione”, scoppiata al culmine della radicalizzazione dello scontro “tra ebraismo e democrazia”, ovvero “tra due diverse visioni dello Stato: da una parte uno Stato ebraico, concepito come una patria per tutti gli ebrei del mondo; dall’altra uno Stato democratico, concepito come il Paese di tutti i suoi cittadini, ebrei e non ebrei, prevalentemente arabi”. Uno scontro in cui, prima del 7 ottobre, “la minaccia palestinese sembrava appartenere al passato”.
Il 7 ottobre non solo ha tragicamente smentito quest’ultima illusione, ma ha fatto sorgere “la tremenda domanda se lo Stato di Israele sia per davvero quel rifugio sicuro che appariva agli ebrei in fuga dalla violenza in un mondo dov’erano stati una minoranza emarginata e spesso perseguitata”.
Ma chi ha condotto a questo stato di crisi? Come già nell’articolo precedente, Neuhaus risponde che “i protagonisti principali provengono tuttora dalle élite sioniste ‘ashkenazite’ che hanno dominato la storia di Israele dal 1948”. Una élite il cui mondo concettuale “è tutto incentrato su uno Stato ebraico per un popolo ebraico”.
Quando invece la società israeliana è anche altro. È fatta anche di “vaste periferie che costituiscono una parte consistente della popolazione”. Ed è da esse che potrebbe emergere “una creatività oggi così necessaria per soccorrere Israele nel formulare risposte alle domande esistenziali interne ed esterne”.
Tra queste minoranze ci sono i cittadini arabi di Israele, per lo più musulmani ma anche cristiani e drusi, i discendenti dei non ebrei che rimasero entro i confini del nuovo Stato d’Israele dopo la sua fondazione nel 1948.
Sono circa 2 milioni e formalmente “hanno diritti politici come tutti i cittadini israeliani”, ma di fatto sono “esclusi da gran parte delle istanze decisionali”.
E poi naturalmente vanno contati i “mizrahim”, gli ebrei provenienti dai paesi arabi già descritti nell’articolo precedente. Tra i quali è in corso una rinascita culturale che accentua “l’affinità tra loro e il mondo arabo circostante: un’affinità che potrebbe suggerire la possibilità di una convivenza”.
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Il quinto articolo è del 18 maggio 2024 e ha per titolo: “Dialogo ebraico-cattolico all’ombra della guerra a Gaza”.
Qui Neuhaus torna di nuovo sulla questione dello Stato d’Israele come parte dell’identità ebraica, “come luogo fisico del patto tra gli ebrei e Dio”.
“Tuttavia va ricordato – scrive – che quella terra è anche la casa dei palestinesi. Oggi in Israele-Palestina ci sono sette milioni di ebrei israeliani e sette milioni di arabi palestinesi”. Da cui la soluzione dei due Stati, che se realizzata “faciliterebbe sicuramente le relazioni tra Israele e la comunità internazionale, inclusa la Santa Sede”.
Ma che questa soluzione sia praticabile, s’è già visto che Neuhaus dubita fortemente. Crede più risolutivo guardare oltre, con un dialogo tra israeliani e palestinesi, come anche tra ebrei, musulmani e cristiani, fatto nello spirito dell’abbraccio a Verona, il 18 maggio 2024, accanto al papa, tra l’israeliano Maoz Inon, che ha avuto i genitori uccisi da Hamas il 7 ottobre, e il palestinese Aziz Sarah, il cui fratello è morto sotto i colpi dell’esercito israeliano.
E conclude: “Non potrebbero israeliani e palestinesi sperare in un orizzonte simile, nella fine delle ostilità e nella costruzione di un futuro condiviso in una terra chiamata a essere santa, in Israele-Palestina?”.
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Il sesto e finora ultimo articolo è del 21 settembre scorso ed è intitolato: “Gli ultraortodossi in Israele”.
Neuhaus tratteggia con maestria il profilo complesso di questa corrente dell’ebraismo. In Israele gli ultraortodossi sono quelli in più rapida crescita demografica, sono vicini a essere un milione e mezzo e a scuola ormai un bambino su quattro proviene dalle loro file. È loro convinzione che “non può essere uno Stato ebraico a garantire agli ebrei sicurezza e benessere”, perché è lo studio della Torah che ha la precedenza sullo Stato e sulle leggi secolari. Pensano tuttora di vivere “come in esilio, contrariamente alla pretesa religiosa sionista che lo Stato di Israele sia l’inizio della redenzione”.
Non stupisce quindi che gli ultraortodossi si pongano in alternativa all’establishment politico e religioso “ashkenazita”. E infatti la loro espressione politica più significativa, il partito di nome Shas fondato nel 1984 dal rabbino di origine irachena Ovadia Yosef, è composto da “mizrahim” provenienti dai paesi arabi e musulmani. Di loro Neuhaus scrive che sono fortemente contrari tanto al servizio militare quanto a “un’agenda di sinistra sulle questioni sociali, come uguaglianza di genere, LGBT ecc.”, ma si oppongono anche al fanatismo dell’ultradestra e “sostengono invece i negoziati di pace con i palestinesi e il mondo arabo, nonché il compromesso territoriale”.
Insomma, conclude Neuhaus: “Oggi in Israele la comunità ultraortodossa è una componente vitale e in crescita all’interno della società. La sua storia dimostra che è in grado non solo di sorprendere, ma anche di sfidare le élite di governo israeliane e le ideologie dominanti. Essa potrebbe svolgere un ruolo importante nel dramma che si sta consumando in Israele, Palestina e Medio Oriente”.
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Intanto la guerra continua ed è sempre più estesa su più fronti. Israele combatte per difendere la sua stessa esistenza contro nemici, il primo l’Iran, che vogliono il suo annientamento. E anche tra gli israeliani sono sempre di meno quelli che ancora credono ai due Stati per i due popoli.
Ma la fortuna del popolo ebraico è che è una società complessa e creativa, come l’ebreo cristiano Neuhaus mette tante volte in luce. Una società a cui Dio ha promesso e dato una terra chiamata ad essere ospitale per l’orfano, la vedova, lo straniero, il palestinese.
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POST SCRIPTUM – Il 17 ottobre papa Francesco ha ricevuto assieme in Vaticano l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert e l’ex ministro degli esteri dello Stato palestinese Nasser Al-Kidva, nipote di Yasser Arafat.
In un’intervista dello stesso giorno a “L’Osservatore Romano”, Olmert ha ipotizzato, per consentire la creazione di due Stati nonostante i sempre più estesi insediamenti illegali dei coloni israeliani, “un’annessione da parte di Israele di una porzione di territorio da concordare pari al 4 per cento della Cisgiordania di Palestina, in cambio di un territorio di pari dimensioni oggi nei confini di Israele. Un territorio da dare ai palestinesi che consenta un corridoio di collegamento tra la Cisgiordania e Gaza”.
Mentre Al-Kidva, per assicurare una coesistenza pacifica tra i due futuri Stati, ha ipotizzato “l’obbligo per lo Stato di Palestina di essere uno Stato non militarizzato, tranne che per le sue esigenze di polizia interna”.
Quanto a Gerusalemme capitale di entrambi gli Stati, Olmert ha detto che “potrà essere la capitale di Israele nelle parti che erano già Israele prima del 5 giugno 1967, oltre a quei quartieri ebraici costruiti dopo il ’67, che rientrerebbero in quel 4,4 per cento di cui parlavo”.
Mentre Al-Kidva ha detto che la Gerusalemme capitale della Palestina “includerà tutti i quartieri arabi che non facevano parte di Israele prima della guerra del ’67”.
Fermo restando, ha fatto notare “L’Osservatore Romano”, che tali piani sono “in contrasto totale con gli intendimenti del corrente governo israeliano”. Così come è nota l’avversione della grandissima parte del fronte palestinese, il cui obiettivo è la distruzione di Israele.
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Sandro Magister è stato firma storica del settimanale L’Espresso.
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