Ridere di Dio? Quello che il papa non ha detto nel suo incontro con i comici

(s.m.) Ricevo e pub­bli­co. L’autore del­la let­te­ra, Leonardo Lugaresi, è un insi­gne stu­dio­so dei Padri del­la Chiesa.

L’evento al qua­le egli si rife­ri­sce è l’incontro che Francesco ha avu­to il 14 giu­gno con un cen­ti­na­io di atto­ri comi­ci di quin­di­ci pae­si del mon­do, alcu­ni dei qua­li di gran­dis­si­ma noto­rie­tà.

L’invito all’incontro era sta­to una sor­pre­sa per tut­ti, non risol­ta nem­me­no dal discor­so let­to dal papa nel­la cir­co­stan­za, come testi­mo­nia l’ironico reso­con­to pub­bli­ca­to il 24 giu­gno sul quo­ti­dia­no “Il Foglio” da uno degli invi­ta­ti, Saverio Raimondo.

Ma l’incognita sul per­ché di que­sto incon­tro tra Francesco e i comi­ci non è nul­la al con­fron­to con un’altra inco­gni­ta ben più seria e pro­fon­da, quel­la sul per­ché “si può ride­re anche di Dio”.

A tale que­stio­ne il papa ha rispo­sto con una bat­tu­ta, quan­do inve­ce – scri­ve Lugaresi – essa è “teo­dram­ma­ti­ca” al mas­si­mo gra­do e ha avu­to il suo cul­mi­ne nel­lo spet­ta­co­lo di Gesù in cro­ce, che “il popo­lo sta­va a vede­re” (Luca 23, 35), chi cre­den­do nel Figlio di Dio, chi irri­den­do­lo.

La paro­la al pro­fes­sor Lugaresi.

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Caro Magister,

il suo ulti­mo arti­co­lo, dedi­ca­to a “Francesco super­star sul tea­tro del mon­do”, mi sol­le­ci­ta a svol­ge­re una con­si­de­ra­zio­ne mar­gi­na­le – ma for­se di qual­che uti­li­tà per appro­fon­di­re il pro­ble­ma da lei mes­so a fuo­co – che mi vie­ne sug­ge­ri­ta dal­la coin­ci­den­za nel­la stes­sa gior­na­ta del­la dop­pia per­for­man­ce di Francesco, pri­ma con i comi­ci riu­ni­ti in Vaticano e poi con i capi di Stato e di gover­no del G7 in Puglia il 14 giu­gno scor­so.

Ai comi­ci, il papa ha det­to: “Si può ride­re anche di Dio? Certo, e non è bestem­mia que­sto, si può ride­re, come si gio­ca e si scher­za con le per­so­ne che amia­mo. […] Si può fare ma sen­za offen­de­re i sen­ti­men­ti reli­gio­si dei cre­den­ti, soprat­tut­to dei pove­ri”. Che pen­sa­re di que­sta affer­ma­zio­ne, cer­to benin­ten­zio­na­ta, che avrà sen­z’al­tro riscos­so l’en­tu­sia­sti­ca appro­va­zio­ne di tut­to il pub­bli­co che lo ascol­ta­va? Direi che è vera: il mon­do può ride­re di Dio, ma in un sen­so mol­to più pro­fon­do, impe­gna­ti­vo e dram­ma­ti­co di quan­to non lasci inten­de­re l’ac­cat­ti­van­te bat­tu­ta di Francesco.

L’”homo reli­gio­sus” fre­me inor­ri­di­to alla sola idea che si pos­sa ride­re di Dio: egli sa da sem­pre che Dio è innan­zi­tut­to tre­men­do e quan­do si mani­fe­sta in tut­ta la sua mae­stà per l’uo­mo la sola alter­na­ti­va al ter­ro­re è il timo­re reve­ren­zia­le, un sen­ti­men­to a cui fa eco anche l’au­to­re del­la Lettera agli Ebrei, quan­do scri­ve: “È ter­ri­bi­le cade­re nel­le mani del Dio viven­te!” (10, 31). Non è dun­que di Dio che l’uo­mo può ride­re, sem­mai di sé stes­so; è Dio, al con­tra­rio, a poter ride­re del­l’uo­mo e del­la sua gof­fa mise­ria.

Così fan­no, ad esem­pio, gli dèi del­la Grecia, per i qua­li l’uo­mo, come dice Platone nel­le “Leggi”, non è che “pai­gnion”, un gio­cat­to­lo. Quella pla­to­ni­ca è già una meta­fo­ra nobi­li­tan­te, che può esse­re decli­na­ta in for­me ben più tri­via­li e deri­so­rie: mi vie­ne in men­te, per esem­pio, il rac­con­to mito­lo­gi­co, ripor­ta­to da Clemente Alessandrino, di come la vec­chia Baubò strap­pa, con un laz­zo osce­no, un sor­ri­so a Demetra in lut­to per la mor­te di Persefone. Siamo i buf­fo­ni degli dèi: non più di que­sto pote­va­no pen­sa­re i paga­ni reli­gio­si, e l’a­po­lo­gi­sta cri­stia­no lo met­te­va in risal­to appun­to per cri­ti­ca­re l’im­pian­to stes­so di quel­la reli­gio­si­tà.

Anche nel­la tra­di­zio­ne filo­so­fi­ca l’uo­mo può ride­re di sé, ma non di Dio, impa­ran­do a guar­dar­si con iro­nia, soprat­tut­to quan­do si pren­de trop­po sul serio nel reci­ta­re la pro­pria par­te sul­la sce­na del Teatro del Mondo. Ride per­ciò dei poten­ti, come del resto fa il Dio del­la Bibbia dal­l’al­to dei cie­li: “Insorgono i re del­la ter­ra e i prìn­ci­pi con­giu­ra­no insie­me. […] Se ne ride chi abi­ta i cie­li, li scher­ni­sce dal­l’al­to il Signore” (Salmo 2, 2.4). Ma ride anche del filo­so­fo stes­so, che cade nel poz­zo per­ché guar­da le stel­le, come inse­gna l’an­ti­co aned­do­to di Talete e la ser­vet­ta di Tracia (è sem­pre Platone a rac­con­tar­ce­lo). Oppure del­la bel­la don­na che, non più gio­va­ne e non più bel­la, si dipin­ge tut­ta per sem­brar­lo anco­ra e per que­sto diven­ta, per cita­re un pas­so di Luigi Pirandello, ridi­co­la e pate­ti­ca insie­me. Potere, sapien­za e bel­lez­za, in quan­to ido­li, non ven­go­no rispar­mia­ti dal riso del­l’uo­mo, anche del­l’uo­mo reli­gio­so, il qua­le da par­te sua può iro­niz­za­re per­si­no sui “pro­fes­sio­ni­sti del sacro” nel loro modo di rap­por­tar­si al divi­no, un po’ come face­va Catone, stan­do a Cicerone, quan­do dice­va di mera­vi­gliar­si del fat­to che due aru­spi­ci, incon­tran­do­si, non si met­tes­se­ro a ride­re pen­san­do al loro mestie­re.

Ma di Dio pro­prio no, con Lui e su di Lui non si scher­za. Non oso quin­di pen­sa­re a come rea­gi­reb­be­ro mol­ti uomi­ni reli­gio­si del nostro tem­po sen­ten­do dire dal papa che si può ride­re di Dio “come si gio­ca e si scher­za con le per­so­ne che amia­mo”, e aggiun­ge­re che l’u­ni­co limi­te è di far­lo “ma sen­za offen­de­re i sen­ti­men­ti reli­gio­si dei cre­den­ti, soprat­tut­to dei pove­ri”. Il che, se ci si pen­sa, da un pun­to di vista reli­gio­so peg­gio­ra di mol­to la cosa, per­ché mani­fe­sta un riguar­do per l’uo­mo che vie­ne inve­ce nega­to a Dio. Temo che soprat­tut­to i musul­ma­ni si con­fer­me­reb­be­ro nel­la con­vin­zio­ne che la nostra non sia vera­men­te una fede e che noi sia­mo in fon­do dei miscre­den­ti, degni del loro disprez­zo.

È vero però che con Cristo cam­bia tut­to. L’incarnazione, pas­sio­ne e mor­te del Figlio è un avve­ni­men­to cul­tu­ral­men­te scon­vol­gen­te che non fini­re­mo mai di meta­bo­liz­za­re, per­ché in esso Dio si met­te nel­la posi­zio­ne di poter esse­re deri­so dagli uomi­ni.

La doman­da “si può ride­re di Dio?” da quel momen­to rice­ve infat­ti una rispo­sta affer­ma­ti­va, che ha però, in pri­ma e insu­pe­ra­bi­le istan­za, non la valen­za umo­ri­sti­ca e leg­ge­ra pro­pria del mot­teg­gio ami­ca­le o fami­lia­re a cui sem­bra rife­rir­si il papa, ben­sì il sen­so dram­ma­ti­co del­la “kéno­sis” divi­na (Filippesi 2, 7), nel­la for­ma acu­ta­men­te scon­ve­nien­te del­la risi­bi­li­tà di Dio, cioè del­la sua espo­si­zio­ne al dileg­gio da par­te degli uomi­ni.

Si può ride­re di Dio nel sen­so che agli uomi­ni è sta­ta data la pos­si­bi­li­tà di far­lo, e real­men­te lo han­no fat­to. La pri­ma vol­ta in un cor­ti­le di Gerusalemme, quan­do “i sol­da­ti del gover­na­to­re con­dus­se­ro Gesù nel pre­to­rio e gli radu­na­ro­no attor­no tut­ta la trup­pa. Lo spo­glia­ro­no, gli fece­ro indos­sa­re un man­tel­lo scar­lat­to, intrec­cia­ro­no una coro­na di spi­ne, glie­la pose­ro sul capo e gli mise­ro una can­na nel­la mano destra. Poi, ingi­noc­chian­do­si davan­ti a lui, lo deri­de­va­no: ‘Salve, re dei Giudei!’. Sputandogli addos­so, gli tol­se­ro di mano la can­na e lo per­cuo­te­va­no sul capo” (Matteo 27, 27–30).

Non si riflet­te mai abba­stan­za sul fat­to che nel rac­con­to cri­stia­no del­la pas­sio­ne e mor­te di Gesù il suo sacri­fi­cio si com­pie entro la for­ma di due isti­tu­zio­ni fon­da­men­ta­li del­la cul­tu­ra uma­na, il pro­ces­so e lo spet­ta­co­lo, ope­ran­do però in esse un para­dos­sa­le rove­scia­men­to dei ruo­li che ne cam­bia pro­fon­da­men­te il signi­fi­ca­to.

La mor­te di Cristo, infat­ti, è l’e­si­to di un pro­ces­so pena­le, in cui però è l’im­pu­ta­to e non il giu­di­ce a pro­cla­ma­re la veri­tà. Il ruo­lo di impu­ta­to, e poi di con­dan­na­to ben­ché (o per­ché) inno­cen­te, è assun­to dal Figlio di Dio, cioè pro­prio da colui che è il vero giu­di­ce del­la sto­ria uma­na. Quel pro­ces­so e quel­la mor­te sono però anche uno spet­ta­co­lo, una rap­pre­sen­ta­zio­ne tea­tra­le, in sé tra­gi­ca, ma, come abbia­mo visto, pron­ta ad abbas­sar­si fino al regi­stro comi­co di una far­sa castren­se del tipo di quel­la a cui i sol­da­ti di Pilato (o di Erode, stan­do a Luca) sot­to­pon­go­no Gesù.

Qui, di nuo­vo, Dio lascia il posto che gli spet­ta, cioè quel­lo del divi­no spet­ta­to­re che dal­l’al­to dei cie­li con­tem­pla il “thea­trum mun­di”, e si cala nel­la par­te del­l’at­to­re. Attore di un dram­ma sal­vi­fi­co in cui la liber­tà di Dio e la liber­tà del­l’uo­mo si incon­tra­no e lot­ta­no, in una “teo­dramm­ti­ca” (per dir­la con Hans Urs von Balthasar) che è asso­lu­ta­men­te seria, ma anche sem­pre suscet­ti­bi­le di tra­sfor­mar­si in “ludus”, cioè in diver­ti­men­to, agli occhi di un pub­bli­co di spet­ta­to­ri disim­pe­gna­ti, che lo guar­da­no come in tele­vi­sio­ne, sgra­noc­chian­do pop­corn. C’è, in que­sto sen­so, una ful­mi­nea anno­ta­zio­ne di Luca a pro­po­si­to del­la cro­ci­fis­sio­ne, che mi ha sem­pre impres­sio­na­to: “Il popo­lo sta­va a vede­re” (23, 35).

Cristo è dun­que il “vero ago­ni­sta”, come lo chia­ma Clemente Alessandrino, che vie­ne nel mon­do per svol­ge­re davan­ti agli uomi­ni l’u­ni­ca per­for­man­ce che può sal­var­li, ma la tre­men­da serie­tà del suo sacri­fi­cio non è affat­to pre­ser­va­ta dal­la con­ta­mi­na­zio­ne comi­ca. Dipende dagli spet­ta­to­ri, dipen­de dal mon­do: come dice splen­di­da­men­te Agostino, “se a guar­da­re è l’em­pie­tà, è un gran­de ludi­brio; se a guar­da­re è la fede, un gran­de miste­ro”. Al pari di un guit­to qual­sia­si, venen­do nel mon­do il Figlio di Dio si espo­ne alla pos­si­bi­li­tà del ludi­brio, met­te in con­to anche di esse­re trat­ta­to come il Gesù del qua­dro di James Ensor, “L’entrata di Cristo a Bruxelles” [nel­la foto], che a me pare la più genia­le rap­pre­sen­ta­zio­ne pit­to­ri­ca del cri­stia­ne­si­mo nel mon­do con­tem­po­ra­neo.

In tale pro­spet­ti­va, ose­rei dire che la dimen­sio­ne mar­ti­ria­le del cri­stia­ne­si­mo, cioè la per­ma­nen­te chia­ma­ta dei segua­ci di Gesù ad esse­re suoi testi­mo­ni nel sen­so pro­ces­sua­le del ter­mi­ne, oggi impli­ca in modo pecu­lia­re anche l’as­sun­zio­ne di quel ruo­lo di zim­bel­lo del mon­do che Cristo si è assun­to, come già sug­ge­ri­va l’a­po­lo­go kier­ke­gaar­dia­no del clo­wn e del vil­lag­gio in fiam­me con cui si apri­va, più di mez­zo seco­lo fa, l’”Introduzione al cri­stia­ne­si­mo” di Joseph Ratzinger. L’uomo che testi­mo­nia la sua fede cri­stia­na in mez­zo agli uomi­ni di oggi “può real­men­te ave­re l’im­pres­sio­ne di esse­re un pagliac­cio”, un ridi­co­lo reper­to del pas­sa­to, ma deve cor­re­re fino in fon­do que­sto rischio.

Oggi, più che mai, esse­re cri­stia­ni signi­fi­ca dun­que accet­ta­re anche la “par­te ridi­co­la” che il mon­do ci asse­gna, ma sfi­dar­lo su que­sto. Quindi sì, il mon­do può “ride­re di Dio” e anche di noi che, die­tro di Lui, ci espo­nia­mo alle sue bef­fe; ma pro­prio per que­sto la cosa, dal pun­to di vista cri­stia­no, non può risol­ver­si in un sim­pa­ti­co elo­gio del­l’u­mo­ri­smo, che in Occidente pia­ce a tut­ti e non offen­de nes­su­no, o peg­gio nel­la pro­mo­zio­ne di un “Buddy Christ” come quel­lo del “Catholicism Wow!” sati­reg­gia­to in “Dogma”, un film di ven­ti­cin­que anni fa che for­se non ha per­so la sua attua­li­tà.

Sulla sce­na del tea­tro del mon­do non è quel­la la par­te che spet­ta al cri­stia­no, chiun­que egli sia, dal papa all’ul­ti­mo dei fede­li lai­ci.

Leonardo Lugaresi

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Sandro Magister è fir­ma sto­ri­ca del set­ti­ma­na­le L’Espresso.
Questo è l’attuale indi­riz­zo del suo blog Settimo Cielo, con gli ulti­mi arti­co­li in lin­gua ita­lia­na: settimocielo.be
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